Introduzione
Il territorio circostante l'ex monastero di San Placido Calonerò conserva un notevole patrimonio architettonico e artistico sfuggito al disastroso terremoto del 1908 e, in parte, alle trasformazioni che hanno coinvolto il centro urbano, colpito in maniera più violenta dall'evento sismico e maggiormente interessato dal boom edilizio. Gli abitati rurali distribuiti nei pressi dei torrenti che scendevano dai Monti Peloritani, un tempo noti come casali, esterni alla città ma rientranti nel territorio comunale, hanno mantenuto in buona parte la struttura e l'aspetto originari, preservando anche tradizioni, feste e culti autonomi, custodendo delle preziose testimonianze del patrimonio culturale locale. Dalla nostra struttura ricettiva sono facilmente raggiungibili alcuni dei casali collinari meridionali messinesi, come Gianpilieri Superiore, Mili San Pietro, Larderia e Zafferia, la cui visita consente di fare un tuffo nel passato e di scoprire alcune opere d’arte che, in alcuni casi, sono gli unici esempi rimasti dell’attività di artisti che hanno operato a Messina e in Sicilia.
Le fotografie presenti in questa pagina sono state realizzate dagli alunni della classe 4C TUR in occasione del festival Le Vie dei Tesori nel 2020 e, in seguito, selezionate e arricchite da didascalie dal gruppo Itinerari Turistici nell'ambito del progetto Start-Up di Impresa Didattica.
Giampilieri Superiore
L’antico casale di Giampilieri, all’estrema periferia sud di Messina, sorge lungo la vallata dell’omonimo torrente, tra alberi di ulivo e agrumi, in una zona che nel passato ospitava diversi mulini ad acqua. Ancora oggi il tranquillo villaggio conserva le caratteristiche case basse, addossate le une alle altre e collegate da vicoli stretti e ripide scalinate, insieme a balconi con mensoloni decorati, fontane e palazzetti ottocenteschi, monumenti e pregevoli opere d’arte del XVI, XVII e XVIII secolo. Percorrendo le stradine in pietra del borgo non si può non pensare all’acqua e al fango che le invasero durante la tragica alluvione che nel 2009 colpì Giampilieri e i villaggi vicini provocando 37 vittime. In questo e in altri eventi del passato, la Chiesa Madre di San Nicola, situata al centro del villaggio, ha rappresentato il punto di riferimento degli abitanti dell’antico casale, il cui santo patrono è appunto San Nicola di Bari.
CHIESA MADRE DI SAN NICOLA
La chiesa venne eretta alla fine del Rinascimento sui resti di un edificio più antico; la data del 1612, che si riferisce alla conclusione dei lavori di edificazione, è riportata su un antico basamento, nel sagrato della chiesa, su cui poggia una moderna statua della Madonna. La semplice e sobria facciata, a due ordini, divisa verticalmente da paraste in marmo grigio-verde, presenta tre portali; quelli laterali con timpani classici e affiancati da paraste, mentre quello maggiore, ornato da semicolonne scanalate, ha il timpano spezzato, già tipico del Seicento. Le colonne, le paraste, i capitelli, gli architravi e i piccoli cherubini nei fregi che impreziosiscono i portali sono in marmo bianco di Taormina. Sul lato destro della chiesa è presente un altro portale che risale ai primi anni del Cinquecento e che probabilmente apparteneva alla Chiesa delle Anime del Purgatorio, primo nucleo dell’attuale edificio; l’unico con arco a tutto sesto e semicolonne corinzie a sostegno dell’architrave, reca nel fregio un piccolo bassorilievo dell’Agnus Dei. Una targa sul lato sud ricorda la sepoltura, sotto il sagrato della chiesa, delle vittime della peste del 1743.
L’interno, diviso in tre navate, mantiene la copertura originale cinquecentesca a cassettoni delle navate laterali, mentre nella navata centrale la copertura a travi è dovuta ad un rifacimento. Lungo le navate laterali si susseguono dieci preziosi altari marmorei con cappelle in pietra locale, che ospitano capolavori realizzati da importanti artisti del XVI, XVII e XVIII secolo. L’altare maggiore, opera del 1777 di Giacomo Amato, è caratterizzato dal vivace contrasto tra il rosso delle 6 colonne e il bianco dei capitelli e della ricca trabeazione.
Nella navata di sinistra si trova uno dei dipinti più preziosi della chiesa, la Pietà del pittore messinese Antonino Alberti, detto il Barbalonga (1603-1649), il quale, dopo aver lavorato a Roma con i grandi pittori del Seicento influenzati da Caravaggio, ritorna a Messina e realizza diverse opere, tra le quali un’altra Pietà conservata al Museo Regionale di Messina. La tela, posta nella prima cappella, raffigura la Madonna ai piedi della croce, con le braccia aperte, mentre sostiene con le ginocchia il corpo del Figlio deposto dalla croce; attorno figure di angioletti dai volti espressivi mostrano un forte coinvolgimento emotivo. Il dipinto è legato ad un evento miracoloso, riportato in un documento conservato nella Biblioteca Universitaria di Messina: nel 1674, durante l’invasione spagnola, un soldato tentò di rubare il quadro e, non riuscendo nel suo intento, indispettito scagliò la sua lancia verso la tela, dalla quale iniziò a sgorgare sangue, che inutilmente il soldato cercò di fermare, finché scappò impaurito e, poco dopo, morì coinvolto in un’esplosione. Gli abitanti di Giampilieri ancora oggi ogni anno ricordano l’episodio con la celebrazione di una messa.
Accanto alla seconda cappella si conserva un’altra preziosa opera, la tavola della Madonna col Bambino, realizzata tra il 1500 e il 1520 e attribuita ad Antonello de Saliba, nipote di Antonello da Messina la cui influenza è riconoscibile nell’uso dei colori e nella resa descrittiva del paesaggio sullo sfondo. La tavola fino al 1911 era conservata nella Chiesa di Santa Maria delle Grazie, dove subì evidenti danni a causa di un incendio al quale seguì un accurato restauro. Nelle cappelle della navata sinistra sono conservate altre opere: un dipinto della Madonna del Rosario con San Domenico e Santa Caterina da Siena, del 1795, del pittore messinese Carlo Maria Minaldi, decorato da 15 medaglioni con i Misteri del Rosario su sfondi nei quali si riconoscono scorci di Messina; una statua policroma di San Filippo d’Agira, del 1712; una tela raffigurante San Giovanni Battista con gli Apostoli Pietro e Andrea, realizzata nel 1902 da Nicolò Cannizzaro, artista di Giampilieri. Nella navata destra un crocifisso ligneo settecentesco è posto nella cappella omonima, appoggiato alla tela con Le Pie donne, del 1854, attribuita a Giuseppe Subba. A seguire altre opere, tra cui un antico dipinto anonimo secentesco della Madonna del Carmine con le Anime del Purgatorio e il Ritrovamento della Vera Croce, dai forti contrasti chiaroscurali che fanno ipotizzare un autore caravaggesco. La statua policroma della Madonna delle Grazie, trasferita recentemente dalla Chiesa di Santa Maria delle Grazie a quella di San Nicola, è una copia dell’opera originale, distrutta da un incendio, ed ogni anno, la prima domenica di luglio, viene condotta in processione attraverso gli stretti vicoli di Giampilieri. La statua attuale è opera di Gregorio Zappalà, autore della copia del Nettuno del Montorsoli e di alcuni elementi di un’altra statua conservata nella chiesa di san Nicola, la statua policroma di Sant’Antonio di Padova, per cui l’artista realizzò le parti in legno, la testa, le mani, i piedi del santo e il Bambino.
Mili San Pietro
L’antico casale di Mili San Pietro si trova a 199 m d’altitudine sui monti Peloritani, in una conca della vallata del torrente Mili, in posizione dominante rispetto a Mili Marina e Mili San Marco, per questo è conosciuto anche come Mili Superiore. Il paesaggio è caratterizzato dalla tipica vegetazione mediterranea, da ruderi di mulini e dai caratteristici terrazzamenti.
CHIESA NORMANNA DI SANTA MARIA DI MILI
Nel casale di origini bizantine si trova un importante complesso abbaziale composto dalla Chiesa normanna di Santa Maria di Mili, fondata nel 1091 dal Conte Ruggero, che vi fece seppellire il figlio, e dall’annesso monastero, costruito in epoche successive. La chiesa, probabilmente edificata su un precedente monastero di origini bizantine, costituisce uno dei più antichi esempi di chiese normanne in Sicilia. Nel 1542 Carlo V d'Asburgo concesse le rendite del monastero al Grande Ospedale di Messina; in questo periodo la chiesa subì un importante ampliamento con il prolungamento della navata e il rifacimento della facciata completata nel secolo successivo. Nell’Ottocento, il complesso architettonico venne venduto a privati, eccetto la chiesa; questa, ristrutturata dopo il terremoto del 1908, venne spogliata dalle opere d’arte che conservava, trasferite nella parrocchiale di Mili San Pietro e al Museo di Messina.
La chiesa è a navata unica con l’abside semicircolare, sporgente all’esterno, affiancata da due absidi più piccole, ricavate nello spessore del muro. La facciata presenta un portone cinquecentesco in legno, incorniciato da un portale marmoreo architravato con un tondo al centro, raffigurante la Madonna col Bambino; il coronamento è tipico del barocco e si conclude con due pinnacoli ai lati. Sul lato meridionale della chiesa è evidente la traccia dell’ampliamento della struttura, che si percepisce come un’interruzione. Il motivo decorativo in mattoni del registro inferiore è dato dal ritmico ripetersi di archi ogivali intrecciati, in uno dei quali è inserita una porta; e nel registro superiore dall’alternarsi di archi ogivali ciechi e finestre. Dal cortile più interno si può ammirare l’abside centrale sporgente, decorata da archi pensili appaiati poggianti su lesene, e le tre cupole emisferiche su tamburi ottagonali, in corrispondenza delle tre absidi.
Dall'interno, coperto da un soffitto di legno con travi a vista, si nota meglio la soluzione scelta dall’ignoto architetto per il presbiterio, dove si apre l’arco trionfale a tre arcate leggermente acute, quella centrale poggiante su robusti pilastri e quelle laterali più strette e corte. Nel pavimento un’apertura conduce ad una cripta sotterranea, costituita da due piccole stanze nelle cui pareti, in piccole nicchie, venivano posti i monaci defunti, in maniera che i liquidi organici si raccogliessero in due piccole vasche, e poi venissero assorbiti dal terreno.
LARDERIA
L’antico casale di Larderia, con le due frazioni di Larderia Inferiore e Larderia Superiore, sorge nella vallata del torrente omonimo alle falde del monte Dinnammare. Ha origini medievali e nel Seicento entra nei possedimenti dei Principi Moncada. Riedificato più volte a seguito del terremoto del 1783 e delle frequenti alluvioni, conserva l’antica devozione per la Madonna di Dinnammare.
CHIESA DI SAN GIOVANNI BATTISTA
Nella chiesa parrocchiale di San Giovanni Battista si possono ammirare preziose opere del XVI, XVII e XVIII secolo e, in particolare, gli affreschi settecenteschi che decorano le pareti e le coperture, esempi molto rari a Messina di un patrimonio architettonico che è andato in gran parte distrutto durante il terremoto del 1908.
La chiesa, che ha origini tardomedievali, è stata oggetto di ampliamenti e ricostruzioni dopo i terremoti del 1783 e 1908. La facciata venne in parte ricostruita dopo il 1784 e, dopo il 1908, venne ripristinato, seguendo il disegno originale, il campanile crollato, spostato a sinistra della facciata; la navata centrale venne ricostruita e le colonne originarie in arenaria, adesso conservate in un cortile interno, furono sostituite dalle attuali in cemento; anche il soffitto a cassettoni è frutto di rifacimento. La facciata è a due ordini raccordati da volute con vasi e pinnacoli laterali; nell’ordine inferiore si aprono tre portali tardobarocchi; quelli laterali sormontati da due finestre ovali; il secondo ordine in corrispondenza del portale centrale, in marmo di Carrara, presenta una finestra rettangolare centrale sormontata da un oculo e si conclude con una coppia di angeli ai lati della croce. La chiesa ha impianto basilicale a tre navate, che terminano con absidi in comunicazione tra loro attraverso due piccole porte. L’altare maggiore, dedicato a San Giovanni Battista è settecentesco, come pure quello che conclude la navata sinistra, dedicato alla Vergine, e quello, a destra, del Santissimo Sacramento.
Entrando dal portale maggiore a sinistra, una lapide testimonia la proprietà del Santuario di Dinnammare alla parrocchia di Larderia e rappresenta una delle peculiarità della chiesa. Nel secondo altare nella navata sinistra si trova infatti uno degli altari più antichi ed importanti, entro il quale è posto il dipinto di Michele Panebianco, del 1836, che riproduce l’antica tavola legata al culto della Madonna di Dinnammare. Si racconta che l’immagine mariana, proveniente dall’Oriente, venne trasportata sulla spiaggia di Larderia sul dorso di due delfini. Ogni anno tra il 3 e il 4 agosto il dipinto viene condotto in processione fino al Santuario di Dinnammare trasportato dai fedeli su una varetta, esposta all’inizio della navata destra. L’altare, che conserva l’icona durante l’anno, è un notevole esempio di decorazione a tarsie marmoree policrome, che per la ricchezza dei fitti motivi floreali e la presenza di due coppie di colonne tortili che reggono il doppio timpano spezzato, rimandano al gusto secentesco. Accanto a questo, nel primo altare, si conserva un altro prezioso dipinto, il più antico nella chiesa, la tavola del 1515 raffigurante la Madonna del Latte, o Madonna delle Grazie, di Girolamo Alibrandi, il cosiddetto “Raffaello messinese”. La tavola raffigura la Madonna che tiene in braccio il Bambino, il quale tendendo la manina sembra chiederle di essere allattato. Il dipinto è collegato a quello sottostante con Le Anime del Purgatorio le cui sofferenze vengono alleviate dalla Vergine. Sempre nella navata sinistra, posta nell’altare di San Giuseppe si trova una statua in cartapesta del 1928 dall’iconografia originale che raffigura San Giuseppe mentre tiene per mano Gesù che reca un cestino con gli attrezzi del padre. La navata si conclude con l’altare seicentesco, dedicato alla Vergine, caratterizzato da due colonne scure, sormontate da capitelli compositi e paliotto settecentesco con monogramma di Maria e 12 stelle; la pregiata statua posta nell’altare è di scuola calamecchiana e raffigura la Madonna col Bambino che tiene in mano una rosa.
Tutta la zona absidale presenta un raro ciclo di affreschi del primo Settecento, attribuiti tradizionalmente a Letterio Paladino, anche se i recenti restauri hanno fatto ipotizzare l'attribuzione a Filippo Tancredi. Nell’abside centrale gli affreschi della volta rappresentano il tema della Santissima Trinità, mentre quelli nelle pareti raffigurano scene della Vita di Gesù: nella parete sinistra la Natività e l’Adorazione dei Magi, a destra la Presentazione al tempio e la Circoncisione. Gli affreschi dipinti nell’abside laterale sinistra con scene della Vita di Maria, sebbene siano più rovinati e in certi brani illeggibili, sono molto interessanti e mostrano un’iconografia insolita: la Sacra Famiglia ad esempio è raffigurata mentre è raccolta accanto ad un camino, la Madonna intenta a dedicarsi ad una pentola con il pranzo e San Giuseppe assorto nel suo lavoro di falegname. E per l’Annunciazione l’artista ha scelto di porre Maria davanti alla finestra reale che si apre nella parete, come se attraverso questa stesse per giungere l’Angelo che non è raffigurato nella scena.
Nelle pareti laterali dell’abside centrale sono posti due monumentali mausolei dei Principi di Larderia, Aloisio e Francesco Moncada, appartenenti ad una facoltosa famiglia aristocratica che possedeva numerosi feudi in Sicilia, tra i quali i possedimenti a Larderia, dove si conserva ancora, anche se in parte demolito e modificato, il maestoso Palazzo Moncada, simile nel prospetto al Palazzo Reale di Messina. L’importanza di questa chiesa è dovuta anche al fatto che i principi la scelsero come luogo di sepoltura. I monumenti, che risalgono al primo Settecento, sono costituiti da basamenti e sarcofagi decorati a tarsie policrome con motivi floreali su fondo prevalentemente blu; molto ricca è anche la decorazione marmorea consistente in volute, ghirlande, festoni che incorniciano i ritratti dei defunti, raffigurati, a contrasto con l’esuberanza della decorazione, in posa rigida e con volti inespressivi. Particolarmente naturale e variegata appare invece la disposizione dei putti sui sarcofagi e di quelli posti in alto a reggere gli stemmi familiari: alcuni dai volti malinconici reggono simboli funerari, il teschio o la fiaccola rovesciata.
Zafferia
L’antico casale di Zafferia, situato tra le fiumare Bonaccino e Monalla, probabilmente abitato già in epoca araba, si ingrandisce quando nel 1176 il vescovo Nicolò concede terreni a chi andava ad abitarvi, in cambio di un’imposta in natura, di frumento, orzo, ceci e lino. Già a quell’epoca risale l’allevamento dei bachi da seta, che consente a Zafferia di contribuire alla produzione della seta, fiorente nel Val Demone fino al terremoto del 1908.
La presenza del clero di rito greco nel territorio spiega la devozione per San Nicola di Myra e i culti bizantini di Maria Odigitria e quello, molto raro in Sicilia, di Santa Sofia, che, insieme a San Nicola e San Rocco, è la protettrice del villaggio. Un’altra particolarità di Zafferia è il privilegio dell’Anno Santo, concesso al villaggio da Papa Sisto IV, pontefice dal 1471 al 1484, riconoscente nei confronti di un medico di Zafferia che lo avrebbe guarito da una grave malattia. L’Anno Santo si celebra quando la Festa dell’Annunziata, il 25 marzo, cade nel Sabato Santo; in quell’occasione chi si reca nella chiesa di San Nicola può ottenere l’indulgenza plenaria.
CHIESA NUOVA DI SAN NICOLA
La chiesa attuale di San Nicola, situata al centro dell’abitato, è una costruzione in stile eclettico del 1927-1930, su progetto di Francesco Calabrò. Realizzata a seguito del terremoto del 1908, che provocò seri danni all’Antica Chiesa di San Nicola, conserva i preziosi altari settecenteschi e le opere d’arte, trasferite dal vecchio edificio, i cui ruderi sono accessibili ai visitatori.
La chiesa nuova presenta sulla facciata a sinistra una lapide ai Caduti della Prima Guerra Mondiale e un bel portale moderno in bronzo, realizzato dal messinese Domenico Trifirò. Il portale, diviso in scomparti, raffigura al centro il Cristo Salvatore, a destra la Madonna Odigitria e, a sinistra, San Nicola, tradizionalmente rappresentato con paramenti orientali e con il pastorale del vescovo, nell’atto di reggere in mano il Vangelo, su cui sono adagiate tre borse d’oro, che ricordano la sua generosità nei confronti di tre ragazze altrimenti costrette alla prostituzione. Nei pannelli inferiore le scene con la festa dell’Annunciazione e della Santa Pasqua fanno riferimento al privilegio dell’Anno Santo, ricordato anche da una lapide, all’interno della chiesa, proveniente dall’antico edificio.
L’interno, a navata unica, presenta ai lati gli altari settecenteschi dell’antica chiesa, realizzati a tarsie policrome, splendidi esempi dell’abilità delle maestranze messinesi in questo tipo di decorazione. L’altare maggiore, dedicato alla Vergine Maria, risale al tardo Settecento. Più antico è l’altare di Santa Sofia, di gusto seicentesco, caratterizzato da quattro colonne tortili che reggono una pronunciata trabeazione e in alto due volute e due putti che sostengono uno stemma nobiliare; la preziosa decorazione ad intarsi policromi crea variegati motivi ornamentali dai colori vivaci: fiori, frutti, conchiglie, uccelli. L’altare custodisce una delle più preziose ed antiche opere d’arte della chiesa, il dipinto cinquecentesco di Santa Sofia, originariamente su tavola e trasportato su tela durante un restauro nel 1970. Attribuito alla scuola di Girolamo Alibrandi, il cosiddetto “Raffaello di Messina”, raffigura la santa in abiti monacali, mentre viene incoronata da due angioletti e regge con la mano sinistra il libro delle Sacre scritture e con la destra la palma, simbolo del martirio; dietro la figura si apre un ampio paesaggio, nel quale si intravede una città. Originariamente il dipinto presentava sui lati dei quadretti con le storie della santa, perduti durante il trasferimento. Si conserva invece la Manta in argento, modellata sul dipinto, realizzata a sbalzo nel 1750 da abili argentieri messinesi e arricchita da raffinati motivi floreali. Altre opere importanti provengono dall’antica chiesa: un dipinto ottocentesco raffigurante l’Addolorata, di Letterio Subba; un dipinto settecentesco che raffigura San Sebastiano curato dalle Pie donne, attribuito a Letterio Paladino, autore degli affreschi perduti dell’antica chiesa; un crocifisso ligneo quattrocentesco.
ANTICA CHIESA DI SAN NICOLÒ
L'antica chiesa di San Nicolò, posizionata su un’altura, si raggiunge a piedi attraversando una zona che apparteneva alla famiglia del poeta Tommaso Cannizzaro, che viveva a Zafferia dove era nato, e costeggiando il settecentesco Palazzo Grano. La chiesa durante il terremoto del 1908 subisce dei consistenti danni, ma non i crolli consistenti che avvengono nei successivi anni, soprattutto dal momento in cui, costruita la nuova chiesa nel 1934 e trasferiti gli altari e le altre opere, quella antica viene lentamente abbandonata al degrado. Si perdono così quasi del tutto gli affreschi che Letterio Paladino aveva realizzato nel 1735, e le decorazioni a stucco con motivi vegetali e puttini, di cui rimangono alcune tracce.
La struttura, il cui primo nucleo era trecentesco e ad unica navata, aveva subito delle modifiche nel Seicento e Settecento, con l’aggiunta delle navate laterali, divise da quella centrale da pilastri che sostengono archi a tutto sesto, e con la costruzione dei due splendidi portali che rimangono. Il portale della facciata, tardo barocco, è affiancato da colonne tortili, che poggiano su un’alta base e sono sormontate da capitelli corinzi e fregio con testine alate. Quello laterale, più sobrio e lineare, è settecentesco. Il grandioso arco trionfale a tutto sesto, ancora integro, conserva alcuni elementi decorativi, mentre è crollato del tutto il catino absidale sul quale Letterio Paladino aveva affrescato la Madonna con angeli e santi. Qualche traccia degli affreschi rimane nel coro a ricordarci quanto purtroppo è andato perduto.
VILLA CIANCIAFARA
Lungo la strada che da Zafferia riporta alla SS 114 merita una visita la splendida dimora rurale detta Villa Cianciafara, sorta alla fine del Settecento su precedenti costruzioni medievali e acquistata nel 1838 dalla famiglia Cianciafara. Oggi appartiene alla famiglia Mallardino, che la ereditò dal nonno Filippo Cianciafara, fotografo ed incisore, cugino di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, autore del Gattopardo, e del poeta Lucio Piccolo. Il palazzo padronale è immerso in un vasto giardino con alberi di agrumi, alberi secolari e piante mediterranee, attraversato da un viale centrale e viottoli secondari affiancati da statue e fioriere, e seminascoste dalla vegetazione fontane, pergolati e un piccolo tempietto bianco. Il palazzo è collocato al centro di alcune costruzioni, costituite da case coloniche ed edifici legati alla produzione agricola della tenuta: il palmento, il frantoio, la cantina, il forno e una piccola cappella con l’annessa sagrestia; vicino all’orto il fienile, la stalla, la scuderia e il maneggio.
Visitando l’interno si ha l’impressione di fare un salto indietro nel tempo. Alle pareti si trovano i ritratti delle famiglie che abitarono la villa ed alcune opere importanti, tra le quali una tavola con la Madonna e il Bambino di Antonello de Saliba e alcune incisioni del Durer. Nella sala della musica, detta così per la presenza di un pianoforte, si trova una grande stufa barocca in ceramica rosa e bianca di fattura austriaca e in altre sale si trovano pregiati camini intarsiati, lampadari in stile floreale, svariati oggetti d’arredamento e libri antichi.
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